sabato 24 luglio 2010

NINA


NINA



Questa è la storia di una bambina che si chiama Giovannina, ma che tutti chiamano Nina. Nome che le si addice molto, in quanto è anche minuta e piccolina.



Nina abita con tutta la sua famiglia in una fattoria lontano dal rumoroso paese ed è circondata da tanti animali.

Ha anche tre fratelli tutti più grandi di lei: Giacomino di dieci anni, Filiberto di otto, Carletto di sette, Nina ha cinque anni, l’ultima della nidiata, come dice spesso mamma Adalgisa e papà Umberto.

Vivono immersi nella natura, c’è tanto spazio, tanti alberi, tanti animali, ed ognuno, nella sua famiglia svolge un compito. A lei tocca andare a pascolare le quattro oche.


Sono oche molto particolari: belle, con piume bianche e soffici, un becco aristocratico e occhi svegli e attenti. In più hanno anche un grosso difetto: sono pettegole! Eh sì, cari ragazzi, Nina riesce a parlare con le oche, ma non solo, pensate un po’, capisce tutte le lingue degli animali.

Naturalmente tutti gli animali di Nina hanno un nome e per le sue oche ha scelto nomi adatti al carattere di ognuna. C’è Sofficina, con piume meravigliose che brillano al sole quando esce dall’acqua; c’è Lunetta perché ha sempre l’aria stralunata e un po’ persa; c’è Clotilde quella che sa sempre tutto di tutti e non tiene mai il becco chiuso; e poi c’è la sua preferita Giretta, che le sta sempre vicino perché è molto timida e paurosa.

Oggi, che è una bella giornata di sole, Nina porta le sue oche allo stagno e canta contenta perché c’è il sole che splende. La sua gatta Rosmina e il cane Bluf le fanno compagnia.

“Basta cantare così forte” le dice Clotilde, “devo raccontare le ultime novità della fattoria e voglio che mi ascoltiate tutti.” Allunga il collo e si guarda intorno per essere sicura che tutti la stiano ascoltando. Bisogna darle retta altrimenti si mette a starnazzare per delle ore dando fastidio a tutti. Nina ormai la conosce bene e sa che deve sopportare le sue chiacchiere. Ma intanto si avvicinano allo stagno e lei potrà perdersi nei suoi pensieri mentre le quattro oche fanno il bagno.

“Va bene Clotilde, che cos’hai da raccontarci?”

“Questa notte ci sono stati tanti tuoni,
e i topi si sono nascosti nei covoni.
La civetta è salita sopra il tetto
Ed ha gufato tutta notte per diletto.
La cavalla non ha fatto che russare
E anche i ragni son dovuti scappare.
La gallina con la testa sotto l’ala
Non ha fatto che litigare con la cicala.
Il pipistrello volava tutto solo
Spaventando le lucciole col suo volo.
E all’alba quando il sole ha rosseggiato
Tutti svegli intorno al caseggiato.”

“Clotilde, ma tu non hai dormito? Come hai fatto a vedere tutto questo?”

“Clotilde ha dormito ed ha russato,
tutto questo lo ha solo immaginato”.

“Beh, mie care io non russo, son di penne aristocratiche io, non sono come voi povere campagnole ignoranti”.

Intanto Clotilde zampetta verso lo stagno con fare sdegnato ed aria di superiorità ma, Lella, la mucca più bella, è passata proprio da lì ed ecco che … swish Clotilde cade proprio dentro una grossa e calda cacca ed il suo pelo così bello e morbido si inzuppa.




Tutti ridiamo, anche i passerotti che hanno ascoltato la sua storia si sono messi a volare in cerchio sopra di lei e ridono e chiamano anche le rondini e tutti ridono ancora più forte.

Si avvicina la timida Giretta, sempre sbeffeggiata perché piccola e spennacchiata. Guarda la Clotilde che si da sempre tante arie e le dice:
“Io non so parlare in rima, non sono bella come te, non mi impiccio delle faccende degli altri, sono la più piccola ma almeno non ho la puzza sotto al becco, invece la tua di puzza, la sentono tutti, forse è meglio se ritorni ad essere un’oca come tutte noi. Vieni andiamo a lavarci, facciamo le oche e lasciamo che ognuno faccia quello che la natura ha scelto per lui”.



Tutte e quattro le oche di Nina zampettano di corsa verso l’acqua per cancellare la puzza di Clotilde che ora, ha capito che un’oca è solo un’oca e nella fattoria ognuno riprende i propri compiti.

lunedì 25 gennaio 2010

HAITI
















E’ una splendida giornata. Come al solito il caldo non cede alla frescura, nei Carabi il tempo conosce solo il sole. L’aria è profumata e umida, noi ci siamo abituati e i turisti vengono sulla nostra isola per trovare caldo e buoni cibi. Sono Hanna, e sto passeggiando con i miei due figli Thomas e Ariane. Guardo verso la collina dove sorgono le ville dei ricchi, immerse in una vegetazione da sogno e circondati da servi e camerieri. Non li invidio. Io sono una semplice moglie di pescatore, ma sono felice e ricca, in casa nostra non manca l’amore, non manca il cibo e i nostri figli stanno crescendo in una terra finalmente libera anche se povera.
Siamo vicini al grande centro commerciale ed entriamo a prenderci un gelato. I miei figli saltano e cantano felici e li devo sgridare per riportarli all’ordine e all’educazione. C’è molta gente e bisogna comportaci tutti bene; non siamo dei selvaggi, anche noi conosciamo le buone maniere ed abbiamo il nostro modo per esprimerle.
Con il gelato in mano ammiriamo le vetrine e camminiamo con calma ancora per un po’ prima di uscire nel caldo della giornata.
Ad un tratto i miei figli mi guardano imbambolati, non capisco cosa sta succedendo. Poi anch’io lo sento. Dapprima da lontano, poi improvvisamente è tutto intorno a noi.
Il terremoto.” Bambini uscite subito di corsa”. Non so se la voce mi è uscita o se l’ho solo pensato, ma li vedo correre verso la grande vetrata. Vorrei seguirli ma i miei piedi sono come piantati nel pavimento e la mia mente si è come fermata. Non riesco a pensare, non riesco a scappare, non riesco a respirare e poi, più niente.

Apro gli occhi e non capisco. Dove sono? Cosa è successo? Dove sono i miei figli? Perché c’è così tanto buio e silenzio? Faccio fatica a respirare e non riesco a muovermi. Piano piano la mia mente comincia a schiarirsi e comincio a ricordare. Mio Dio, c’è stata una forte scossa di terremoto ed io sono sotto le macerie. Sono al centro commerciale. Con me c’erano i miei figli e tante altre persone, verrà presto qualcuno a tirarci fuori, devo stare calma. Ricordo che i miei figli correvano verso l’uscita e sono sicura che sono salvi, presto salveranno anche me.
Ho forti dolori alle gambe e cerco di muovermi ma non ci riesco. Posso muovere solo il braccio destro e mi pulisco il viso dalla polvere.
Gli occhi sono ricoperti di detriti e il naso è quasi chiuso del tutto. Con estrema calma e molto lentamente uso la mano per pulirmi e cercare di respirare. Le orecchie mi fischiano e non riesco a sentire rumori: è come essere all’inferno e non capirne la ragione.
“Stai calma Hanna” continuo a pensare, presto arriveranno i soccorsi e devi saperli sentire. Penso ai miei figli e come devono essere preoccupati, a mio marito che è fuori a pescare, oddio lo tsunami, ci mancherebbe solo quello!
“Stai calma Hanna” o sarà peggio per te. Cerco un respiro costante perché il cuore mi batte all’impazzata, se non riesco a calmarmi rischio di morire, ma non posso permettermelo, i miei figli hanno bisogno di me.

Non capisco; da quanto tempo sono qui? Mi sembra passata un’eternità ma può essere solo un’ora. Con la mano mi sposto i capelli dal viso e mi accorgo che c’è sangue sulla mia fronte, eppure non sento dolore, mi fanno male solo le gambe.

Le mie orecchie stanno ricominciando a funzionare e sento tanti rumori indistinti, sento lamenti, pianti, urla e grida disperate. Forse anch’io sto urlando, ma non mi rendo conto di niente. Il mio corpo è immobile, il mio respiro affannoso, e il battito del mio cuore non riesce a rallentare.

“Stai calma Hanna” penso ancora una volta, qualcuno sta sicuramente arrivando, devo farmi trovare viva.

“Sepolta viva!” Adesso ho capito, sono sepolta viva e mi sento soffocare. Un urlo inumano mi esce dalla gola, questa volta lo sento distintamente, la disperazione si sta prendendo la mia mente e continuo ad urlare come una bestia ferita. Non mi sento più umana e urlo, urlo e urlo fino a stordirmi.

Un benevolo buio si è impossessato di me. Sprofondata in questo sonno innaturale non sento dolore e spero di svegliarmi all’aperto. Non dormo, non sogno, non vivo, eppure non sento niente: in che stato sono?

Riapro piano gli occhi e sono ancora qui. Un pianto disperato che nessuno può sentire e, silenziosamente e con molta fatica, mi asciugo le lacrime.

“Sepolta viva!” penso ancora. Per quanto tempo posso stare così? Fino all’infinito, penso, fino all’infinito perché da qui voglio uscirne viva.

Adesso mi calmo davvero, adesso capisco che ogni energia mi serve per resistere: niente lacrime, niente urla, niente disperazione, solo speranza, anzi, solo sicurezza di rivedere il mio mare e la mia spiaggia insieme alla mia famiglia, per loro resisto e per loro ce la farò.

Dio come passa lentamente il tempo! Vorrei tanto sapere da quanto tempo sono qui sotto, ma proprio non riesco a capirlo. Ho sete, ho caldo e a volte freddo e mi sento sospesa nel tempo.

Devo pensare a cose belle e rivedo i miei figli correre e giocare sulla spiaggia. Loro amano il mare, come il loro padre. Penso a noi tutti riuniti per la cena della domenica e di come l’allegria riempie la nostra casa. I miei genitori che portano il dolce, la musica che riempie la stanza ed Ariane che balla felice e leggera come una farfalla. Thomas è più serio, lui è per i giochi maschi, non ama molto le femminucce e sta accanto a suo padre come un piccolo uomo in cerca di forza. Non riesco a trattenere le lacrime, rivedrò ancora la mia famiglia? Rivivrò ancora belle emozioni con loro? Stanno bene? Sì, stanno bene, loro stanno bene e presto li rivedrò.

Non avrei mai pensato quanto doloroso e difficile fosse rimanere immobili. Io che non so stare ferma non mi capacito di questa immobilità. Non sento dolore: sono ancora viva? Sì, sono ancora qui. Da una fessura vedo la luce, è giorno e qualcuno verrà di sicuro, risparmio il fiato per farmi sentire quando i soccorritori saranno vicini.

Sento tanti rumori, tante voci, ma sono ancora lontane. Stanno cercando, cercano senza sosta e presto mi sentiranno. Non vedo l’ora di rivedere la luce del sole, non voglio più nemmeno dormire al buio, d’ora in poi voglio vivere solo nella luce.

Il buio non fa paura, ma questa incertezza e questo immobilismo mi fa tremare, comincio a pregare, mi serve anche l’aiuto di Dio se voglio uscire da qui. Cerco di muovere lentamente la testa, c’è qualcosa che mi punge dietro il collo e non riesco a toglierlo.
La lama di luce che riesco a vedere mi tiene ancorata alla realtà. Oltre le macerie la vita continua, chissà cosa è successo? Là fuori, il sole e il mare, continuano il loro ritmo di vita e la gente, sono sicura, sta conducendo la solita vita. I miei genitori mi stanno aspettando ed i miei figli sono al sicuro con loro e con il loro padre. Sono queste certezze che mi danno la forza di resistere: voglio ritornare da loro, sono lì che mi aspettano.

La sete! Questa sete è una tortura. La polvere e i calcinacci mi sono entrati negli occhi, nel naso e in gola. Non c’è niente che possa darmi sollievo e sogno un bicchiere di acqua fresca. La lama di luce è sempre più nitida, è ancora giorno e stanno arrivando, coraggio Hanna, fatti coraggio, mi dico, non arrenderti e non perdere la speranza.

Le forze mi stanno scemando. Ho voglia di dormire, ma quella lama di luce mi dice di rimanere sveglia, qualcuno può arrivare da un momento all’altro e se dormo non posso farmi sentire. “Occhi, rimanete aperti” continuo a ripetermi, ma il sonno mi vince.

Non può essere vero! Sto certamente sognando. Che bello stare in spiaggia e correre a piedi nudi e respirare questa aria così umida e profumata di mare. Le gambe non mi fanno male e corro e rido e mi bagno nell’acqua.
E’ bello rivedere il sole e sentirlo caldo sulla pelle. Fin da quando ero bambina ho amato scaldarmi sotto i raggi del sole. Ho la pelle colorata e sembro un cioccolatino. Respiro, respiro, respiro a pieni polmoni e mai il sapore del vento mi è sembrato così buono.

Mi sveglio e riprendo coscienza, non c’è il sole, non c’è il mare ed è sparita anche la piccola lama di luce. E’ sicuramente notte e sono al buio completo, dove siete? Perché non venite a salvarmi? Le labbra sono rotte e sento sulla lingua il sapore della polvere e il cuore riprende la sua corsa pazza.

Sono sveglia e ansimante, le labbra sono gonfie e la lingua sembra di carta vetrata. Non riesco più a muovere nemmeno il braccio: sembro una mummia vivente. L’unico movimento è l’alzarsi e abbassarsi del seno mentre respiro, vorrei muovere il collo ma sento qualcosa che mi punge e rimango immobile. Lacrime silenziose e inaspettate mi bagnano il viso: sono disperata, mi accorgo che le mie forze stanno calando, la mia volontà sta diminuendo e mi viene voglia di lasciarmi andare. Il sorriso dei miei figli torna a farmi compagnia e mi ridà quella forza e speranza che mi servono per non mollare.
Qui sotto: al buio, al caldo, al freddo, sento la vita che mi abbandona piano piano, non voglio morire, non ancora, voglio rivedere la mia famiglia e abbracciare tutto il mondo.

Dov’è la mia lama di luce? Ancora non la vedo. E’ ancora notte ma sento intorno a me tanti rumori, sono sicura: mi stanno cercando.

Sento una fitta dietro al collo e cerco di muovermi lentamente ma non ci riesco, il dolore è troppo forte. Un liquido caldo e vischioso mi bagna la schiena, cos’è? Poi capisco. Il sangue mi esce dal collo! Adesso sono davvero nei guai. Mano a mano che il sangue defluisce sento svanire anche la mia energia vitale. Sento il freddo entrarmi nel corpo e prendere il posto del mio caldo e prezioso sangue. Adesso lo so: sto per morire. In questi ultimi attimi di vita sono sola, disperata e ho paura. Silenziosamente alcune lacrime mi bagnano il viso. Poi chiudo gli occhi e aspetto. Ed è la fine.

Il mio Spirito abbandona il mio corpo ed esce all’aperto. Per la prima volta vedo il disastro che si è abbattuto sulla mia splendida isola. Vedo distruzione, morte, malattie e tanta fame. Ma vedo anche tante persone generose che si danno da fare senza risparmiarsi.
Il mio Spirito si unisce a moltissimi altri che stanno guardando l’amata terra e non capisco cosa facciamo ancora qui. Vedo i miei figli corrermi incontro, anche loro non sono sopravvissuti. Durante la scossa di terremoto, quando io non sono riuscita a scappare, loro sono tornati per prendermi e sono morti ad un passo da me, ed io non lo sapevo. Ora, non ha più importanza, siamo insieme.

Siamo qui, a centinaia di migliaia e guardiamo il disastro.

Siamo qui perché con il nostro Spirito ed il nostro Amore vogliamo infondere speranza e fiducia in chi è rimasto e dovrà soffrire per tanto tempo ancora.

Ma soprattutto siamo qui per vedere quei diavoli che oseranno approfittarsi della disperazione e del bisogno della nostra gente, perché noi grideremo a Dio i loro nomi: ognuno di loro sarà riconosciuto ed ha già pronto il posto nell’inferno per l’eternità.

Quando la normalità sarà tornata tutti noi potremo andarcene, tutti noi porteremo nel cuore il calore della nostra isola, la dolcezza ed il sapore della bontà delle persone generose, e con noi tutto l’amore che abbiamo provato in quell’immenso dolore.

Grazie a tutti, aiutate la nostra Haiti.

martedì 15 dicembre 2009

AUGURI






















Caterina, Giacomo, Nonna Lucia, Peppo, Veronica, Aurora, Vittorio, Luciana, Giuseppe, Viola, nel ringraziarVi per aver dedicato loro qualche minuto della vostra attenzione Vi augurano BUONE FESTE. Ed io, umile scribacchina delle loro storie mi unisco ai loro auguri e, di tutto cuore, VI AUGURO UNO SPLENDIDO 2010.

Con affetto. Milena Ziletti

sabato 3 ottobre 2009




PEPPO

Mi è ritornato in mente un vecchio ricordo, il ricordo del vecchio Peppo, era già vecchio quando io ero una bambina. Peppo aveva quattro figli maschi ed era vedovo. I figli erano sposati e abitavano tutti in case attaccate le une alle altre tanto che sembravano una sola grande comunità. Io giocavo con i loro figli perché abitavo in un piccolo appartamento incastonato fra le loro case, e li conoscevo tutti. Mi incuriosiva la figura di Peppo, perché non parlava mai, io non ho mai sentito la sua voce. Non si lamentava nemmeno quando lo sgridavano qualsiasi cosa facesse. Era piccolo di statura e avevo l’impressione che facesse di tutto per rendersi invisibile e non dare fastidio a nessuno. A turno i figli lo ospitavano in casa loro, ma le nuore non ne erano felici e lo trattavano male, ed io non ne capivo il motivo. Era basso, un po’ pelato e con gli occhi acquosi tipici dei vecchi. Sembravano occhi di chi piange di nascosto ed era sempre triste: non parlava, non sorrideva, non infastidiva nessuno, eppure i suoi nipoti lo prendevano in giro: come fosse il cucciolo bastardo di un cane randagio. Mai ho sentito i loro genitori sgridarli e chiedere di rispettare il nonno, come se questo fosse una nullità. Eppure doveva essere stato un uomo giovane e vigoroso, doveva avere combattuto delle guerre, aveva cresciuto quattro figli ai quali aveva lasciato in eredità il suo lavoro, lavoro che poi, in parte, passò ai nipoti, eppure di lui si è perso il ricordo. A distanza di quasi 50 anni sono qui a chiedermi: non i suoi figli che ormai sono morti, ma i suoi numerosi nipoti che ricordo avranno di questo nonno? Di questo uomo triste e solitario che ha permesso loro di avere la vita, di diventare genitori e, forse, anche già nonni. Avranno avuto anche loro qualche volta lo stesso trattamento che ha avuto Peppo? Io spero di sì. Spero che almeno qualche volta si siano resi conto di avere sbagliato, di essersi comportati male e di dovere anche a lui una parte della storia della nostra nazione e della loro vita. Se non l’hanno fatto, caro Peppo, questo racconto è per te, per tutti quelli che come te, una volta diventati vecchi vengono “scartati” da questa società perché non servono più e sono scomodi anche per la propria famiglia. Per tutti quelli, che come te, non si sa dove siano sepolti e non ricevono ogni tanto una preghiera e un ringraziamento per quanto avete fatto.
Eri piccolo di statura, hai generato quattro figli, hai combattuto per la Patria ed hai finito i tuoi giorni come se non contassi niente. Per te e per tutti quelli come te, dimenticati, offesi, maltrattati, ignorati e a volte umiliati un sentito grazie per il mondo che avete contribuito a lasciarci.
Riposate in pace.

mercoledì 30 settembre 2009



NONNA LUCIA

Quando Lucia nacque, non era ancora scoppiata la prima guerra mondiale ed i tempi erano grigi e di povertà, soprattutto nei piccoli paesi. Nonostante le lotte, la politica e la povertà i bambini continuavano a nascere, ed in numero superiore ad oggi. Lucia era una bambina bella ed allegra, e cresceva in una famiglia normale. Aveva delle sorelle, ma lei si distingueva per il suo buonumore, per la sua bellezza semplice e per i suoi occhi scuri ed espressivi. Fra tante ristrettezze era comunque la più bella della famiglia e il suo modo di prendere la vita con il sorriso sempre pronto la rendeva invidiata e criticata. Scoppiò la grande guerra che portò per tutti maggiori ristrettezze, fame e dolore per la perdita delle persone care. Per fortuna la guerra finì e la vita riprese un po’ più serena. I giovani, si sa, sono tali ad ogni latitudine e Lucia non faceva differenza: era sbocciata come un fiore. I lunghi capelli, il suo inseparabile sorriso, i suoi occhioni scuri e dolci erano un’attrazione per tutti i giovani del paese e anche di quelli vicini. Lucia non aveva ancora incontrato il ragazzo che le avrebbe rapito il cuore, e la sua esistenza scorreva sui binari della giovinezza. Ma un giorno… Quel giorno, il suo cuore per un attimo si fermò: era proprio il ragazzo dei suoi sogni, quello che aveva sempre desiderato di incontrare. E come nei film fu amore a prima vista. A quei tempi le convenzioni erano molto rigide e le caste erano ancora di moda: ci si sposava solo fra persone dello stesso rango. Ma due giovani innamorati non badano a queste formalità, ed il loro fu amore pieno e totale, che coinvolgeva mente, cuore e corpo, e Lucia rimase incinta! I due ragazzi si resero conto di essere nei guai. In quei tempi era peccato mortale concepire un figlio fuori dal matrimonio, ed aspettarono, tentando di convincersi fino all’ultimo che il loro grande amore poteva trionfare. Così non fu. Il ragazzo fu costretto dalla sua famiglia ad allontanarsi da Lucia ed il loro tenero ed ardente amore fu troncato.
Lucia tornò in famiglia con la morte nel cuore e la mise al corrente della situazione: incinta e senza un fidanzato che la potesse sposare! Fu in quel momento che la vita cominciò ad abbandonarla. Gli occhioni scuri non brillavano più, niente più sorrisi e la sua esistenza divenne un inferno. Più il pancione cresceva più le umiliazioni aumentavano. Anche le sue sorelle, costrette a vivere nella famiglia di “una poco di buono” cominciarono a maltrattarla. Per colpa sua, anche loro dovevano subire le conseguenze delle male lingue del paese. L’unica azione buona che fecero fu di non cacciarla di casa. Arrivò il momento del parto e, tanto per non smentirsi, non uno ma due furono i figli di quel grande amore. La gioia e la tenerezza di una madre verso i propri figli non conosce confini e, per Lucia, fu una lacrima di gioia nel rendersi conto di quanto grave era la sua situazione. Quei figli bastardi, innominabili, ella volle chiamarli Angelo e Natale, con la speranza che la forza e l’importanza di quei nomi li potesse aiutare nella loro esistenza.
Ci provò Lucia, ci provò con tutte le sue forze di giovane donna e di madre a crescere quei figli. Sopportò umiliazioni, abbandoni, cattiverie, ma quando si rese conto che tutte quelle invettive e dolore ricadevano anche suoi suoi bambini prese quella decisione: la decisione che le spezzò il cuore e la voglia di vivere, allontanò da sé e dalle persone malvage di quel posto i suoi bambini, con la speranza che, lontano da tutta quella cattiveria potessero crescere come ogni bambino si merita.
I bambini erano lontani ma il dolore non accennava a diminuire. I problemi che Lucia creava con la sua presenza in quella casa erano intollerabili per i suoi famigliari; non la volevano, la maltrattavano, la insultavano, e fuori dalla famiglia era ancora peggio. Bisognava trovare una soluzione. E fu così che qualcuno decise di darla in moglie ad un uomo più vecchio di lei di venti anni. Lucia accettò. La sua vita non poteva andare peggio di come era in quel momento. Forse un marito, una nuova famiglia avrebbe messo a tacere quel grande scandalo che aveva provocato. Non cercava più l’amore, quello lo aveva già conosciuto e sapeva che sapore dolce aveva, ma aveva una speranza: quella di vivere un’esistenza più serena e di donna rispettata. Fu così? E’ difficile da stabilire. I suoi parenti ruppero ogni rapporto con lei e questo fu causa di dolore continuo e persistente per tutta la sua esistenza. Nacque un primo figlio da quel matrimonio, ed il cibo scarseggiava. La seconda guerra mondiale dava le prime avvisaglie. Il contesto politico fascista era duro da accettare. E poi un altro figlio, un altro, e un altro ancora. Alla fine furono dieci i figli che sfornò per quel suo marito che la trattava solo come una femmina da monta. Finchè una sera, seduto a tavola, in un istante, quell’uomo, suo marito morì di schianto.
Fu dolore? Fu liberazione? Fu destino? In tutti quegli anni l’unico scopo della sua vita era dar da mangiare a tutti quei figli, e non era facile. Per fortuna i gemelli erano lontani e, forse, se la passavano meglio. Furono pochi i gesti di tenerezza e di amore per quei dieci figli. Forse non voleva far pensare che avesse una preferenza più per uno che per l’altro. Lucia era circondata da molti figli, da molta povertà ma tutto questo scivolava su di lei come acqua sul marmo: il suo cuore era rimasto bloccato dal suo amore di gioventù, dal dolore della separazione dei suoi gemelli, dalle umiliazioni subite, da quel matrimonio costretto e senza amore, non le importava di niente, si lasciava vivere. Poi arrivarono i primi nipoti ed i suoi occhi scuri ricominciarono a scintillare, rivedeva la vita riprendere con amore. Amore: lei sapeva cosa significava. Un po’ alla volta si aprì un poco. I tempi erano migliorati, c’era da mangiare in abbondanza,la sua tribù si allargava sempre di più ed i suoi figli non avevano mai troncato i rapporti con i primi due. La sua felicità fu al culmine in un’occasione, tutti i suoi dodici figli con i rispettivi bambini si ritrovarono insieme e fu lì che il suo cuore riassaporò la gioia e da quel momento seppe di aver raggiunto il massimo della felicità.
Fu dura la vita per nonna Lucia, io sono la sua seconda nipote, ho vissuto con lei ed i suoi figli molti anni di bambina. Era una donna vecchia, con il fisico disfatto da tante gravidanze, le gambe gonfie, i capelli raccolti in una treccia sulla nuca. Non si è mai fermata davanti alle avversità. Avere una famiglia così numerosa porta anche ad avere tanti problemi. Soleva ripetere “io ho molti figli, ma non ce n’è uno uguale all’altro”. I suoi gemelli andarono all’estero, e gli altri… ognuno di loro ebbe ed ha la propria storia. Storia e vita che Lucia ora guarda senza poter interferire, come mai aveva interferito anche quando era in vita. Fu amata dai suoi figli, alla fine il suo cuore spezzato per amore fu ricomposto dall’amore dei suoi figli per lei. Anche loro non furono capaci di dimostrarglielo come meritava, ma lei lo ha sentito questo amore ed allora ha capito il perché ha dovuto sopportare tanto dolore: per dare la vita a tutti loro, ad Angelo, Natale, Orsolina, Mario, Guido, Ermes, Teresa, Umbertina, Zelinda, Elisa, Giuseppe, Giuliana. Ed ognuno di loro, a loro modo continuano un pezzo di Lucia.
Grazie nonna, anche da parte dei tuoi numerosi nipoti.